La divina

Il divismo non nasce col cinema. Fenomeni divistici esistevano già nell'antichità e, fin dall'ottocento, l'appellativo "diva" veniva usato per esaltare le attrici di teatro e le cantanti dell'opera lirica. Nel corso del secolo, poi, le usanze divistiche si diffusero sempre più, culminando, fra otto e novecento, negli atteggiamenti delle due grandi protagoniste del teatro europeo di quegli anni: Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse.

La prima amava essere stravagante ed anticonvenzionale: fumava il sigaro, portava al guinzaglio un coccodrillo, dormiva in una bara. La seconda si mostrava intenzionalmente semplice e disadorna nell'abbigliamento: appariva struccata, non si tingeva i capelli ormai grigi, vestiva di bianco o di nero, assumendo atteggiamenti di tormentosa sofferenza nei suoi alteri silenzi.

Nonostante questi illustri precedenti si dovettero però aspettare circa quindici anni, dopo la nascita del cinema, per vedere i primi divi dello schermo. Gli attori del cinema delle origini, nascosti dal trucco pesante, ripresi da lontano e presenti in film troppo brevi perche' il pubblico vi si potesse affezionare, infatti erano di solito anonimi; e, come ci dice Edgar Morin in I divi, la loro presenza non era necessaria all'affermarsi del nuovo mezzo espressivo:

nessun elemento della natura tecnica ed estetica del cinema richiama immediatamente la presenza del divo; al contrario il cinema potrebbe anche fare a meno dell'attore, della sua recitazione, perfino della sua presenza e sostituirlo vantaggiosamente con dei dilettanti, bambini, oggetti, disegni animati.

I primi a diventare popolari furono così non gli attori, ma i personaggi che essi interpretavano, quali, in Inghilterra, il sergente maggiore Chart e, in Francia, Fantomas o Nick Carter. Quest'ultimo talmente amato dal pubblico femminile che la casa di produzione Eclair di Parigi, produttrice della sua serie, riceveva numerosissime lettere di ammiratrici indirizzate a suo nome.

Negli Stati Uniti, invece, gli attori cominciarono pian piano a diventare famosi in base ai ruoli da loro piu' spesso interpretati e alle case di produzione: Mary Pickford divenne cosi' famosa come "Little Mary", Florence Lawrence come la "Biograph Girl", Florence Turner come la "Vitagraph Girl".

Ma è solo a partire dalla fine del 1910 che le case di produzione, spinte dall'interesse sempre crescente del pubblico, iniziano a rendere noti i nomi degli attori, e che le riviste specializzate cominciano ad interessarsene pubblicando foto ed articoli ed istituendo rubriche di risposta alle sempre piu' numerose lettere di spettatori curiosi di conoscere i loro veri nomi. La pura ed innocente "Little Mary" viene così finalmente conosciuta come Mary Pickford, mentre il nome di Theda Bara (anagrammabile in Arab Death) si diffonde ovunque quale sinonimo di donna esotica e fatale.

L'avvento del lungometraggio, nel 1910, e l'introduzione dei piani ravvicinati favoriscono la valorizzazione degli interpreti, i quali finiscono per diventare, agli occhi degli spettatori, l'elemento centrale di un film. Queste nuove tecniche, unitamente alle campagne pubblicitarie che i produttori, visto il successo di pubblico riscosso dai singoli attori, cominciano ad organizzare, danno il contribuito definitivo alla nascita del divismo cinematografico.

In Italia, nel 1911, Asta Nielsen, un'attrice danese solitamente interprete di drammi torbidi e sensuali, viene lanciata in Italia come la "Duse del Nord"; e, a partire dal 1912, vengono prodotte serie di film basate tutte sulla stessa protagonista, quali la serie Pina Fabbri della Milano films e la serie Lyda Borelli della Gloria.

L'Inferno del 1911, prodotto dalla Milano Films e lungo 1300 metri, segna in Italia l'avvento del lungometraggio, di un film, cioè, che superi i mille metri. Seguono numerosi altri lungometraggi di soggetto storico e spettacolare, fra cui, nel 1913, Quo Vadis? e Gli ultimi giorni di Pompei, e fra il '13 e il '14 l'imponente Cabiria, diretto da Giovanni Pastrone, in arte Pietro Fosco, con didascalie di Gabriele d'Annunzio che contribuiranno a far leggere il film in chiave nazionalista.

Con Cabiria il 'colosso storico' raggiunge il suo apice: i suoi scenari enormi, le situazioni sensazionali, le numerosissime comparse e l'introduzione delle carrellate, unitamente al nuovo uso della luce artificiale, che sottolinea gli effetti di contrasto e di controluce, stupiscono il pubblico europeo ed americano, contribuendo al successo internazionale del cinema italiano e delle sue dive.

Nel 1913, con Ma l'amor mio non muore, un dramma mondano girato da Mario Caserini per la Gloria di Torino, nasce la prima vera diva cinematografica italiana, Lyda Borelli, seguita dopo breve tempo da Francesca Bertini, l'altra grande diva italiana che si distinguera' subito dalla recitazione floreale della prima per il maggiore eclettismo della sua vena, che la portera' ad interpretare ruoli molto diversi tra loro: dalle più consuete donne fatali d'ispirazione dannunziana, fino al personaggio maschile di Histoire d'un Pierrot e alla napoletana e popolaresca Assunta Spina.

Nel frattempo, attorno alle due figure più famose -da Brunetta definite "le teste di serie del divismo del cinema muto italiano"- si crea un ampio gruppo di dive: dalla sprezzante e sensuale Pina Menichelli fino, per citarne alcune, a Italia Almirante Manzini, Rina de Liguoro, Maria Jacobini, Hesperia, Diana Karenne, Leda Gys, Maria Carmi, Soava Gallone, Elena Sangro, Carmen Boni.

Il periodo di maggior fortuna del divismo italiano è fra il 1913 e il 1921. In questo lasso di tempo avviene infatti quello che Morin definisce il passaggio dall'"era della diva per il film" a quella del "film prodotto in funzione della diva". Gli attori, affermatisi come figure centrali della cinematografia, diventano così importanti e determinanti per la riuscita di un film da creare, come Francesca Bertini, le proprie case di produzione.

A partire dall'inizio degli anni venti in Italia il fenomeno inizia però a recedere: i divi di Hollywood, sostenuti da precise strategie commerciali ed industriali, cominciano a prendere il sopravvento. Il divismo, italiano che a differenza di quello americano aveva sempre mantenuto un carattere artigianale, perde il suo primato. Quello italiano, scrive infatti Giulio Cesare Castello in Il Divismo, era un

Olimpo relativamente provinciale e domestico; le eccentricità dei cui numi potevano consistere (...) nell'abolire le sedie dalla propria casa, come faceva Maria Jacobini, o nel mangiare in continuazione semi di zucca, come Margot Pellegrinetti, oppure nel soffiare bolle di sapone, come Linda Pini.

Ma nonostante questi caratteri che oggi fanno sorridere, negli anni dieci e venti le dive italiane influenzano la moda ed il costume, proponendo nuovi comportamenti ed un canone di bellezza cui uniformarsi. Come nel caso della bionda Lyda Borelli che, con la sua figura alta, abbastanza sottile per l'epoca, serpentina, lancia la moda delle diete, dei capelli ossigenati e dei contorcimenti sinuosi. La sua influenza è così grande che, a un certo punto, si parla addirittura di "borellismo".

Fin dai tempi di Ma l'Amor mio non muore Lyda Borelli appare come la diva per eccellenza del cosidetto 'cinema in frac', un genere che, secondo un modello d'ispirazione dannunziana, presenta un mondo di aristocratici, esteti e donne fatali dediti a passioni distruttive e proibite, e che, unitamente ai grandi 'kolossal storici', finisce per prevalere sulle correnti più realistiche e popolari, ben rappresentate nel nostro cinema da film quali Assunta Spina e Sperduti nel buio.

Poste al centro dei drammi mondani di un 'cinema in frac' che, conformemente al gusto dannunziano, esalta gli "individui d'eccezione", le dive del muto, come le "Dame d'oro" dell'aristocrazia romana ritratte da d'Annunzio nelle sue Cronache mondane, conducono una vita 'inimitabile' all'insegna del lusso e dell'eccezionalità. Le loro dimore sono sontuose, la recitazione liberty e scenografica (la Bertini con il capo all'indietro e la mano sul fianco o che regge il mento, la Borelli le mani convulse nei capelli o abbracciata ad un tronco), i loro desideri cercano di essere raffinati e stravaganti: in il Processo Clemenceau, al marito, stupito per la "stranezza d'idee" della moglie, Iza Clemenceau, interpretata da Francesca Bertini, domanda: "Vorrei bere del latte fresco in una coppa d'argento".

Di loro, le protagoniste del "cinema isterico", Salvador Dalì racconta:

ricordo quelle donne dal passo vacillante e convulso, le loro mani di naufraghe dell'amore che andavano accarezzando le pareti lungo i corridoi, aggrappandosi alle tende e alle piante, quelle donne la cui scollatura scivolava in continuazione dalle più nude spalle dello schermo, in una notte senza fine, fra cipressi e scalinate marmoree. In quell'epoca critica e turbolenta dell'erotismo, le palme e le magnolie venivano letteralmente prese a morsi, strappate coi denti da queste donne il cui aspetto fragile e pre-tubercolare non escludeva tuttavia forme audacemente modellate da una giovinezza precoce e febbricitante.

La diva è "l'idolo" che, scrive Morin, "si contrappone alla donna sempre presente, all'amica, alla sorella": in carrozza, in macchina, ai balli, all'Opera, circondata da adoratori, ella indossa grandi cappelli piumati (video), pellicce, abiti da sera di lamé coperti di brillanti, oppure neri e scollati sulla schiena e sui quali spesso risalta una collana di perle lunghissima, come quella, poi famosa, di Louise Brooks: la collana con cui gioca la duchessa di La Donna nuda o la marchesa di Maman poupeé; quella, portata larga e un po' all'indietro di Mercedes Brignone in Il Quadro di Osvaldo Mars; quelle indossate da Lyda Borelli in Malombra, o da Francesca Bertini in Il processo Clemenceau e soprattutto in La Piovra, dove una lunghissima collana portata, questa volta, a tracolla, attraversa la schiena nuda della diva.

Il suo volto, innaturalmente bianco, dai grandi occhi cerchiati di nero, ripropone una truccatura, che, osserva sempre Morin, come quella teatrale "differenzia l'attore dall'umanità profana (...) lo investe di una personalità sacra e ieratica"; quel "maquillage" in cui, scriveva Baudelaire, il bianco della polvere di riso "accosta immediatamente l'essere umano alla statua, cioé a un essere divino e superiore", mentre

il rosso e il nero rappresentano la vita, vita soprannaturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e singolare, dona all'occhio un'apparenza più risoluta di finestra aperta sull'infinito; il rosso che infiamma i pomelli accresce vieppiù la luminosità della pupilla e insinua in un bel volto femminile la misteriosa passione della sacerdotessa.

Coperte di gioielli come un idolo, sacerdotesse "dell'amore e della morte" travestite -come Lyda Borelli in Rapsodia satanica- da baiadere discinte, oppure identiche -come la protagonista de Il Quadro di Osvaldo Mars- ad un ritratto di Salomé, le dive si muovono su uno sfondo da bric-à-brac orientaleggiante che ha i suoi modelli 'alti' nell'orientalismo ottocentesco -dal Bain turc di Ingres fino alla garçonnière di Andrea Sperelli nel Piacere dannunziano- e dove, fra enormi tendaggi, tavolini arabi, vasi cinesi, tapezzerie damascate, letti e divani coperti di pelli e pellicce, cuscini e bracieri, vige e trionfa la felicità dei sensi.

L'atmosfera è quella del Medio Oriente magico e barbarico della Bisanzio simbolista e decadente; un'atmosfera permeata di un dannunzianesimo penetrato, scrive Brunetta, anche nel "sistema degli oggetti": "Appaiono i letti, i divani, gli specchi, certe medicine (...) che hanno soprattutto il potere di far respirare al pubblico borghese l'atmosfera proibita dei paradisi artificiali".

Proiettandosi con la fantasia in mondi lontani, si realizzano, infatti, i propri desideri di evasione dal quotidiano, si soddisfa quel "bisogno del sogno", quell'"aspirazione ad escir fuori dalla realità mediocre" nel soddifacimento dei quali, diceva D'Annunzio, consiste una delle funzioni dell'arte e della letteratura.

Avvolte da un atmosfera mitica e favolosa, le dive acquistano così una carica simbolica che, se da un lato soddisfa il gusto piccolo borghese ed i bisogni di evasione del pubblico, dall'altro recupera un repertorio di vicende e di immagini provenienti dalla tradizione artistica e letteraria, capace di dare alla nuova arte una legittimazione culturale. Seduttrici e femmes fatales alla maniera dannunziana, ma anche donne angelo, pallide fanciulle perseguitate o sofferenti, donne-natura o dee della primavera, esse fanno infatti rivivere nei loro volti e nei loro gesti i tipi femminili ereditati dalla letteratura, dalle arti figurative, dal mito; nelle loro vicende, un cinema, "nato -scrive Edgar Morin- come spettacolo plebeo", ripropone "i temi del romanzo d'appendice e del melodramma, nei quali si ritrovano, in una dimensione quasi fantastica, gli archetipi primi dell'immaginario".

Al di là della varietà delle vicende raccontate e dei personaggi interpretati si riconosce, innanzi tutto, il vecchio dualismo fra Eva e Maria, ovvero fra l'idea della femminilità come natura e materia oppure come astrazione dello spirito; fra l'antica concezione della donna come seduttrice sensuale e maliarda e quella che vede la donna come eterea fonte di salvezza mediatrice fra l'uomo e Dio, secondo un modello che da Maria alle donne angelicate dello Stil Novo arriva fino alla moderna donna angelo. Al di là della maschera riappare il volto molteplice ed ambiguo di un 'Eterno femminino' che, mostratosi nei secoli sorridente e minaccioso, benevolo e terribile, sembra essere tornato per rifulgere, nel firmamento dello spettacolo, attraverso il corpo della diva.